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9 maggio.
Sebbene la giornata fosse luminosa, i raggi del sole erano costretti a filtrare tra le nubi leggere che fluttuavano in cielo. L’appuntamento era fissato per le 10 in punto in una graziosa caffetteria nel centro di Strasburgo, a due passi dalla Petit France.
Mi ero alzato di buon mattino, stravolgendo le mie abitudini. L’ansia non mi aveva fatto chiudere occhio e il desiderio d’arrivare puntuale aveva accelerato ogni mio gesto.
La strada brulicava di persone, ma nonostante ciò il mio passo era spedito, fin quando non misi erroneamente un piede in un acquitrino, formatosi a causa della pioggia del giorno precedente. La cosa dapprima mi irritò poiché avevo fatto particolare attenzione al mio abbigliamento per l’occasione, ma in un secondo momento non potei che trattenere tra le labbra un sorriso.
Avevo appena superato una cattedrale gotica dalle guglie e dai pinnacoli prepotentemente slanciati verso il cielo, quando vidi una folla enorme di persone che si affaccendava intorno alle numerosissime bancarelle sparse qua e là.
Il convegno tenutosi il giorno prima mi aveva dato l’opportunità di conoscere tante persone, diverse e piacevoli accomunate dall’interesse di apprendere il vero senso del legame europeo che le univa. Ci eravamo incontrati per caso all’interno di una sala ove si sarebbe discusso dell’importanza dell’Unione Europea dal punto di vista economico. Confesso che il dibattito mi tediò, ma ciò non m’impedì di scambiare quattro chiacchiere con le persone presenti, annoiate quanto me. All’interno della sala erano pochi i visi maturi: vi si trovavano, per lo più, ragazzi e ragazze venuti da ogni dove.
La Petit France, un quartiere edificato interamente sulle acque, era un luogo affascinante e i raggi del sole, riflettendosi nei canali e sui volti delle persone, gli conferivano un’aura fiabesca, proiettando sulle case dipinte con tinte vivaci un mirabile caleidoscopio di colori.

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Dal giorno del mio arrivo, infatti, avevo trascorso buona parte del mio tempo addentrandomi nei vicoli disseminati ai piedi della cattedrale, guidato dall’istinto e dal desiderio di poter assorbire fino in fondo ogni rumore, sensazione e movenza che rendevano la Petit France un luogo così magico. La scelta della caffetteria era stata ovviamente avanzata dal giovane ragazzo francese, Jean, che durante il convegno mi sedeva accanto e con il quale avevo partorito l’idea di un successivo incontro.
Infatti tra tutti noi che partecipavamo in qualità di pubblico, si era venuto a creare un clima di grande coesione: pertanto si fece vivo il desiderio di vedersi in un contesto più informale, dove avremmo potuto confrontarci nuovamente.   Assorto nei miei pensieri, non mi ero accorto di aver superato il luogo convenuto; dovetti, quindi, ingegnarmi per poter tornare sui miei passi, ricostruendo il tragitto a ritroso.
Finalmente intravidi la simpatica tenda a righe rosse e bianche che dall’uscio della caffetteria dava timidamente sulla strada: “Le Café mignon” vi era scritto in corsivo. Eccola, delicata e rosea, allegra e floreale, proprio come Jean me l’aveva descritta. Principalmente si ripartiva fra l’atrio ed un’ampia vetrina. L’entrata era abbellita da un enorme vaso in terracotta che conteneva una composizione di gerani. Sulla porta di legno scuro si apriva una finestrella incorniciata da una cortina rossa raccolta sulla sinistra in lievi onde. Allo stesso modo era stata adornata la vetrina.
L’imprevisto che mi aveva fatto allontanare dalla caffetteria aveva annullato il vantaggio che avevo guadagnato alzandomi di buon mattino. Non persi tempo, quindi, ed entrai con uno slancio così vivace, quasi incontrollato, da far risuonare fragorosamente i campanelli al di sopra della porta, posti a segnalare l’entrata dei clienti.
All’interno le luci erano soffuse ed un aroma piacevole di caffè aleggiava nell’aria. I tavoli in legno, di piccole dimensioni, erano apparecchiati con tovagliette allegre ed intorno a questi stavano sedie, poltroncine e sgabelli d’ogni forma e misura. L’arredamento era senza dubbio stravagante e fuori dal comune: si erano compenetrati e fusi diversi stili che, ad un osservatore superficiale, potevano trasmettere un senso di disordine, di caos mentre invece, a monte di un’analisi meticolosa, rendevano l’atmosfera piacevolmente pulsante. iii.jpg (4958 byte)
Rapito dall’ambiente circostante non mi ero accorto che, sprofondato in una consunta poltrona verde ottanio, se ne stava tranquillamente a fumare la sua pipa un simpatico vecchino dal viso solcato da profonde rughe. Un volto che avevo notato già il giorno prima al convegno. Accanto a lui sedeva compita una giovane donna dai capelli chiari che le ricadevano ribelli sulle spalle. I due sembravano aver fatto già conoscenza e chiacchieravano amabilmente. Avanzai verso di loro e la giovane, vedendomi, agitò gioiosamente la mano per salutarmi invitandomi a prender posto vicino a lei. Mi sedei su di una sedia comoda ed il vecchietto mi sorrise. Iniziammo a parlare di quanto bella fosse la situazione che ci aveva condotto in quello strano ed attraente locale.
Non avevamo ancora terminato di enumerare le meraviglie di Strasburgo quando fecero il loro ingresso tre persone, due uomini ed una donna, che si sedettero al tavolo vicino al nostro e con i quali iniziammo una simpatica conversazione.
oooo.jpg (2664 byte) Dopo di loro la porta non fece che aprirsi e chiudersi ininterrottamente finché il locale non fu pieno. Riuscii ad intravedere molti dei visi che avevo scorto il giorno prima. Il vociare era fitto, ma non fastidioso e quando arrivò Jean trafelato dalla corsa, finalmente potemmo ordinare caffè, brioche e pasticcini, delizie per i nostri palati. Mi accorsi che accanto a noi sedevano, sorseggiando caffè, due ragazzi e due donne. Parlavano concitatamente e, curioso, mi protesi verso di loro per poter udire di cosa parlavano con tanto coinvolgimento.
Una delle donne, dall’aria austera, i capelli raccolti in una stretta crocchia e le unghie laccate, stava spiegando agli altri che era una manager in visita per motivi di lavoro a Strasburgo e che per partecipare a questo incontro stava tralasciando alcune faccende importanti. La cosa mi scosse, quindi chiamai Jean e gli sussurrai all’orecchio che forse avremmo dovuto iniziare a parlare gli uni con gli altri del vero motivo che ci aveva spinti in quella stramba caffetteria.
Il giovane francese annuì e, sbattendo delicatamente il cucchiaino sulla tazzina di caffè, richiamò l’attenzione degli astanti. D’un tratto un attento silenzio si sostituì al sussurrare che fino a poco prima aveva riempito la sala. Con voce timida spiegò che il nostro essere insieme era dettato dal desiderio di condividere le peculiarità di ognuno, diverso per nazionalità, ma allo stesso tempo appartenente ad una stessa Comunità. I miei occhi interrogativi si fermarono sui volti dei presenti che sembravano interessati e trepidanti. Fui pervaso da una sensazione di soddisfazione.
Appena Jean ebbe finito il suo discorso prese la parola un uomo seduto in fondo alla sala che recava calcati sul naso un paio d’occhiali dalle lenti spesse.
 

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